JEFF – IL GIOCO DELLE OSSA
di Lorena Piras
Quanto può essere disturbante una risata?
Quanta ansia può trasmettere un corpo che si dondola e quella risata, dapprima chiusa tra i denti, che esplode in un singhiozzo pieno di sdegno, rabbia, disgusto?
Se sullo schermo ce lo hanno insegnato il Joker di Phoenix o il Max Cady di De Niro, a teatro, quando tutto accade davanti a noi, è Tiziano Polese nei panni e nell’anima di Jeffrey Dahmer, il Mostro di Milwaukee, a trascinare nel maelstrom dell’animo umano, smontando e rimontando i pezzi di un meccanismo psicologico molto spesso insondabile: la nascita di un serial killer.
“Jeff – Il gioco delle ossa” (produzione Abaco Teatro e NudiCrudi) non è la messa in scena di episodi di vita di un Mostro, non tratta di gente cattiva che fa cose bruttissime, per dirla alla Lucarelli.
Lo spettacolo di Dafne Turillazzi e Antonello Verachi scandaglia il Jeffrey bambino che si avvolge su se stesso sino a diventare l’assassino di diciassette uomini. Come la spirale rossa che campeggia in una scenografia essenziale, crepuscolare e livida come una sala di tortura.
Tutto, sul palco, è scheletrico: dalla sedia metallica sulla quale Jeff si lascia andare a una risata di morte ripensando a una sua vittima (Boucar Wade), ai rami secchi che spezza, bambino, nel suo gioco preferito, quello degli uomini stecchino, uomini senza carne che se si avvicinavano troppo, si distruggevano.
Tutto è primitivo, ridotto all’osso: le ossa con cui il piccolo Jeff giocava, a quattro anni, nel girello, lanciandole in aria e afferrandole al volo. Quelle dei suoi piccoli amici: animali morti che, una volta cresciuto, raccoglieva per strada, scarnificava o conservava nella formaldeide rubata al padre chimico.
Un Jeff bambino che riveste quelle ossa bianche e lisce dei sentimenti che non riesce a esprimere. Non riesce perché non li conosce, perché nessuno gli ha insegnato la fiducia, la reciprocità, l’amore, il rinforzo.
Non riesce perché Jeffrey conosce solo rifiuto, isolamento e abbandono. E allora fugge, Jeff. Fugge senza muoversi, inizia a corrompere il bambino sino a farlo diventare Mostro.
Se la realtà fa male, se gli altri parlano secondo un alfabeto emotivo difficile da interpretare e impossibile da condividere, la fantasia può fare da rifugio. Come il casotto dove conservava i piccoli amici.
La fantasia è un luogo sicuro, nessuno può entrare a sparigliare le carte, a dettare ordini , a criticare quell’odio erotizzato che inizia a farsi largo tra i pensieri di Jeff.
Nella fantasia non ci sono prese in giro, nessuno definisce strana o bizzarra la camminata da automa che gli segna il passo, nessuno obietta se prende il controllo. Nessuno, perché in quelle fantasie sono tutti morti. Perché i morti non vanno via, non tradiscono, non mettono in ridicolo, non offendono.
Non è la solitudine a trasformare Jeff in assassino, è come decide di affrontarla. O come le si abbandona, attorcigliato alle visoni di una madre (Rosalba Piras) oscurata da deliri e psicofarmaci e a un padre (Gerardo Ferrara) che non vede, non si accorge di nulla, scambia il silenzio impassibile del figlio per pace.
Dapprima in slip e canotta, il Dahmer di Polese si riveste mano a mano che questo abbandono si fa sempre più invasivo, rendendolo sempre più impermeabile ai sentimenti che pure rincorre ma che gli sfuggono, sino a indossare la divisa arancione dei detenuti, sino a ri-vestire i panni del Mostro.
Jeff ha ucciso diciassette uomini, li ha fatti a pezzi, ne ha violato i cadaveri, ha conservato pezzi del loro corpo. Li ha mangiati. Perché non lo abbandonassero. Per tenerli con sé. Per rispondere a quel bisogno di reciprocità e sicurezza che non era in grado di sperimentare con un essere vivente.
Portato in scena per le scuole, per la prima volta, ad Alghero, (nell’ambito del progetto “TxT Teatro per tutti“, col quale il Teatro d’Inverno ha partecipato al bando regionale Culture lab finanziato con fondi POR-FESR, (progetto possibile grazie alla concessione del Civico Teatro da parte della Fondazione Alghero e del Comune di Alghero), un dibattito al termine dello spettacolo ha messo in evidenza quanto dinamiche familiari, personali e ambientali, insieme a segnali inascoltati o sottovalutati, abbiano portato un bambino solo a diventare mostro.
Dahmer era il Mostro di Milwaukee. Jeffrey, un bambino da salvare.
foto di Roberto Corridori
®Riproduzione Riservata
Lo spettacolo ti inchioda alla sedia, ti fa fare un viaggio nella mente di Jeff che ti trascina, grazie alla pregevole interpretazione, credibilissima di Tiziano Polese, nei meandri della sua mente e ti trovi a percorrere la sua vita interiore da bimbo fino alla maturità da killer. Uno spettacolo molto utile ai ragazzi, da portare nelle scuole superiori. L’esperimento è stato molto seguito e gradito dai giovani.
Bravi anche gli attori in video. Le immagini parevano uscire dalla mente di Dahmer. Grazie anche alla Dott.ssa Lorena Piras che, da specialista criminologa, ha discusso coi ragazzi che avevano voglia di approfondire le informazioni sul personaggio coinvolgendoli in un’analisi dei fattori che hanno dirottato la sua crescita. Grande spettacolo!!
Complimenti! Bell’articolo.