PER FAVORE NON TOCCATE LE VECCHIETTE!
di Demetrio Nunnari
da “I DIARI DI CINECLUB, n.65, ottobre 2018 (puoi scaricare gratuitamente l’ultimo numero della rivista cliccando QUI)
Nella sua lungimiranza il genio è sempre irriverente, poiché scorge la verità, mina gli schemi ed infrange idoli e miti. L’intuizione provocatoria è la griffe del migliore Mel Brooks, che nel ’74, in Mezzogiorno e mezzo di fuoco, deride il western – regno inviolato di quel marcantonio di John Wayne – con un improbabile sceriffo “afro”. Poco dopo, col suo Frankenstein Junior, rispolvera il bianco e nero nel pieno rigoglio dell’era del colore. E infine, con L’ultima follia di Mel Brooks (del ’76), spiattella un film muto a mezzo secolo dalla comparsa del primo sonoro. In questo ideale percorso a ritroso trova il suo perché il bislacco revival neonazista di Per favore, non toccate le vecchiette! Joseph E. Levine non vuol saperne di produrlo; non è divertente abbastanza.
Si ravvede grazie alla tenacia di Peter Sellers che, per caso, assiste al montaggio. Detta però una condizione che tradisce la natura delle sue perplessità: il titolo Springtime for Hitler – quantomeno imbarazzante – va cambiato nel più cauto The Producers. Anche in Italia la distribuzione opta a favore di una più divertita connotazione sensual-geriatrica. Ma andiamo alla trama. Max Bialystock (Zero Mostel), cineasta al tramonto, sbarca il lunario scoprendosi gigolò. Seduce attempate e vogliose donnine facendosi finanziare, fra un sexy giochino e l’altro, lavori inesistenti in cambio di interessi astronomici.
Quando, un giorno, il contabile Leo Bloom (Gene Wilder) nota sui suoi registri un modesto ammanco, balena l’idea folgorante: se solo Bialystock racimolasse non pochi spiccioli ma cifre a sei zeri, certo di mettere in scena un flop clamoroso, potrebbe tenersi di diritto l’intera somma diventando milionario in un sol colpo. I due ordiscono così l’allegra bancarotta fraudolenta, andando subito in cerca della peggior opera teatrale mai vista. Setacciano invano decine di copioni; persino la storia di un tale Gregor Samsa che si risveglia scarafaggio, ma è troppo bella. Tutti, anche il lattaio, sembrano posseduti dal demone dell’arte. E all’improvviso eccolo: il raccapricciante dramma Primavera per Hitler di Franz Liebkind, un nostalgico del Reich che alleva piccioni e ci parla pure.
Per non sbagliare, Bialystock e Bloom ingaggiano Roger De Bris, un regista mezzo travestito che “non riuscirebbe nemmeno a dirigere il traffico”, e – per la parte del Führer – il cocainomane Lorenzo St. Dubois, per gli amici “LSD”. A Broadway, la sera della premiere, tra svastiche, cannoni e lascive soldatesse con le cosce al vento pare la versione teutonica del Moulin Rouge. In sala sono impietriti dall’orrore. È un fiasco – pardon, un trionfo – senza precedenti. Ma, al secondo atto, Ellessedì si esprime in tutta la sua spaventevole vis comica, e il pubblico – piegato in due dalle risate e coi crampi all’ombelico – applaude fino a spellarsi le mani. Stavolta è la fine. I compari fuggono inseguiti da Liebkind che, furioso per l’oltraggio a “zio” Adolf, vuole farsi giustizia sommaria.
A fatica, convincono il crucco che il solo modo di porre fine a quello scempio è far saltare il teatro. Max, Leo e Franz finiscono così in gattabuia, dove – foraggiati da galeotti e secondini – allestiscono Prigionieri d’amore, la commedia del momento. Per favore, non toccate le vecchiette! vale a Mel Brooks – esordiente alla regia – un Oscar per la sceneggiatura nel ‘69. Divenuto col tempo un classico, il film è oggi annoverato dall’indice AFI [American Film Institute] tra le cento commedie americane più belle di sempre, seguito a distanza da Il grande dittatore (’40) di Chaplin, capolavoro cui Brooks fa il verso in maniera insistita.
Tra i comprimari, Mostel è il mattatore assoluto. La sua comicità è quella di un habitué del palcoscenico; corrosiva, materica, bisognosa d’uno spazio quasi totale. Al suo fianco l’acerbo Gene Wilder ne esce adombrato, lontano dalla esilarante insania del futuro “Frankenstin”. Nel complesso, però, la loro ironia si mostra alquanto pugnace. Il senso del “brutto”, approdato al cinematografo con l’espressionismo tedesco attraverso categorie quali il deforme e il ripugnante, viene qui declinato in foggia di grottesco sarcasmo. Bialystock che flirta con rugose verginelle, che annusa il canovaccio di una pièce definendola «puro sterco»; Lorenzo St. Dubois (Dick Shawn) che sculetta nel bel mezzo di un provino. La premiata ditta “Bialystock & Bloom” si scaglia contro l’ipocrisia – o, forse, il potere – di tanto showbiz e della critica, che svendono un incapace per attore di successo, ed elevano una roba stomachevole alle altezze dell’arte.
Come nel cinema espressionista di cui sopra – ma in un clima di folleggiante ilarità -, anche qui i contorni tra il reale e la sua percezione sono sfumati, soggettivi. L’impossibile è una chimera. Non è peregrina, infine, l’ipotesi di una velenosa stoccata alla cultura benpensante dello “Zio Sam” che, all’indomani del secondo conflitto bellico, riabilita con precipitosa indulgenza strateghi e gregari di una ideologia funesta e criminale. Levine, in fondo, non aveva tutti i torti. Un film scomodo, ma sfacciato e geniale, The Producers, a cui un titolo sterile e fiacco non ha sottratto il “dovuto” successo.
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Quanto mi è piaciuto questo film! Non sono molto d’accordo con il giudizio su Wilder che io invece ho trovato esilarante con i suoi attacchi di isteria, ma alla fine sono gusti personali. Grazie mille, ho letto con piacere! Non conoscevo i Diari di Cineclub… sto leggendo sempre tutto, un grande lavoro.
Adoro questo film! Grande Mel Brooks!