QUANDO NON CI ACCORGIAMO DI ESSERE “BULLI”
di Giovanni Brianda
Ricordo che da bambino ero molto fragile. Fragile in tutti i sensi: ero di salute cagionevole, sottopeso e balbettavo parecchio. Per tanti motivi mi sentivo diverso da tutti gli altri. Credo che sia una cosa che fin dalle scuole elementari farebbe sentire qualsiasi bambino diverso da tutti gli altri, non solo agli occhi del proprio specchio ma agli occhi dei propri compagni di scuola. Ricordo che avevo sempre paura che tutti mi identificassero come il più debole fino ad esser in qualche modo compatito, ma non ricordo di aver mai temuto di esser preso di mira dal bullismo. Anzi, forse per paura che questo esser in qualche modo diverso mi potesse danneggiare, cercavo di farlo diventare un vantaggio. Giocavo con la mia personalità a costo di ostentare un certo esibizionismo seppur sotto sotto fossi pieno di complessi e terribilmente timido. Eppure ha sempre funzionato. Ironia della sorte, apparivo quasi come il più forte di tutti. Non ricordo di essere mai stato vittima di bullismo, né alle elementari né alle medie, tanto meno alle superiori. Ricordo che qualche compagno provò a rendermi il cosiddetto “soggetto” della classe, ma non riuscì a coinvolgere il branco; anzi qualcuno rischiò che i propri tentativi (spesso classisti) gli si ritorcessero contro. Ricordo che al primo anno alle industriali avevo un compagno di banco che in un certo senso ricordava la mia stessa fragilità ma più profonda e senza nessun anticorpo di difesa. Era un ragazzo minuto fisicamente. Non faceva nessuna attività di aggregazione, cioè non faceva l’ora di educazione fisica con noi e fuori dalla scuola nessuno sport ma solo lezioni su lezioni di pianoforte. Stava isolato nel suo angolo, lui non capiva noi e noi non capivamo lui. Stava da solo anche durante il quarto d’ora di pausa. Inevitabilmente la sua natura così diversa dal branco alimentava una certa ironia da parte di tutta la classe, che magari non era neppure così brutale, ma non poteva che farlo sentire ancora più diverso ed emarginato, e comunque schernito come se quel suo esser diverso da tutti fosse una colpa da trattare come una brutta malattia contagiosa. Ricordo che la mia empatia alla fine mi aveva convinto a diventare il suo compagno di banco e usando come ponte l’amore in comune per la musica avevo fatto di tutto per entrare nel suo mondo per cercare di trascinarlo dentro al mio e poi dentro quello di tutti gli altri compagni, ma il suo mondo era troppo diverso, c’erano muri altissimi che dovevano a tutti i costi nascondere dolori troppo forti.
E dopo tutto, col senno di poi, anche il mio modo di parlare di lui con gli altri e in sua presenza non poteva che ferirlo almeno quanto gli altri, perché comunque “confermavano” la sua diversità ed il senso di solitudine. Un soprannome detto con cattiveria oppure con simpatia non sempre colpiscono diversamente, anzi a volte diventa l’eccezione che conferma la regola. Dopo diversi anni ho saputo che Luca (nome di fantasia) non c’è più. E’ arrivato ad un punto della propria esistenza in cui probabilmente neppure il pianoforte ha potuto calmare il dolore e ha deciso di scappare da tutto e da tutti una volta per tutte. Quando mi è stato detto non mi sono meravigliato affatto e questo mi ha fatto sentire ancora di più una grandissima testa di cazzo. Non sono stato molto diverso dagli altri compagni. La mia empatia cercava di entrare nel suo mondo ma allo stesso tempo sono rimasto nel branco e senza neppure rendermene conto anche io ho elevato quel muro che lo teneva fuori dal nostro di mondo. Non sono genitore, ma se lo fossi cosa dovrei insegnare a mio figlio per evitare che anche lui possa cadere nel mio stesso errore? Perché spesso il bullismo (quello psicologico per lo meno) si insidia nel branco sotto mentite spoglie, senza che il bullo neppure si renda conto di quanto possa fare male un semplice soprannome o una risata di scherno. E’ certo che non siamo stati noi la causa del suo più grande malessere, ma sicuramente non abbiamo fatto nulla per aiutarlo a reagire, anzi…. Pensiamoci.
PS: Ho ripetuto diverse volte la parola DIVERSO perché sarebbe da analizzare per capire che esser in qualche modo diverso non significa avere un difetto, ma spesso avere qualcosa che può diventare ricchezza.
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lo so sulla mia pelle quello che scrivi, ero come Luca solo che non suonavo il pianoforte ma scrivevo poesie. mi prendevano in giro perchè stavo nel mio mondo goffo e pieno di fogli. c’è un grande dolore dietro ma sono sicura che tu sia riuscito a dare molto conforto a quel ragazzo. e un pò lo ha dato anche a me adesso.
Il pensiero che io abbia dato qualcosa di buono a “Luca” allevia il mio senso di colpa. Se ho dato un po’ di conforto con questo mio articolo sono felice davvero!
Non lasciamoci mai schiacciare dalle nostre “diversità” ma anzi facciamone la nostra stella! Buona vita Imma
Un animo sensibile! Grazie per questo scritto così intelligente!