AUTOCOMMISERAZIONE, ALIBI, VOGLIA DI FARE E RINUNCE: LAUREARSI E’ PER I RICCHI?
di Gianni Carboni
Questa è la storia di Fabrizio e Ivano, due miei cari amici. Sono fratelli, differiscono di un anno di età, Ivano il più piccolo. Fanno parte di una famiglia… dire povera pare brutto, diciamo semplice. Raimondo e Daniela sono i loro due splendidi genitori. Lui: ex emigrato in Olanda da giovanissimo e rientrato in Italia per “questioni militari” che sono combaciate con il nascere del rapporto con Daniela, il quale ha fatto sì che poi in Italia ci rimanesse per sempre, dipendente pubblico di basso profilo e con inesistenti scenari di carriera, ora in pensione. Lei: la più classica delle casalinghe di un tempo, dedica la sua vita da sempre ai due figli (finché sono rimasti a casa), al marito ed alla stragrande maggioranza delle faccende domestiche.
La più classica delle famiglie di rango medio-basso italiano, uno stipendio e tanti impegni da mantenere, i famosi 1.200 euro al mese (decina di euro più, decina di euro meno) di cui abbiamo sempre sentito parlare nei media per descrivere chi, a fatica, prova ad arrivare a fine mese indenne. E loro, nonostante tutto, ci sono sempre riusciti.
Non si sono fatti mancare le ansie di tutti i poveri comuni mortali, mutuo per la casa (mai terminata del tutto per motivi di cui alle successive parti della storia), bollette, acquisto di soli beni di prima necessità. Pochissime cene al ristorante, pochissime vacanze, tante rinunce. Calcolatrice sempre a portata di mano per capire dove, cosa e quanto poter spendere mese per mese, settimana per settimana. Insomma, senza infamia e senza lode, non gli è mai mancato un tozzo di pane né un tetto nel quale dormire, il tutto condito da tanta armonia familiare, un legame fortissimo, gioia di vivere e sorrisi sempre pronti per tutti, compresi loro stessi, senza mai piangersi addosso.
Tenendo sempre a mente questo contesto che ho voluto descrivere in premessa, apro il vero tema del crudo racconto, e cioè quella che per me rimane, salvo casi davvero eccezionali, una vera e propria leggenda popolare: per studiare, per istruirsi, per elevare la propria cittadinanza, serve essere ricchi. Se sei povero, non ti puoi laureare.
Balle, su balle, su balle. Alibi per chi non ne ha voglia e/o per chi non ce l’ha fatta per proprie mancanze personali.
Giustificazione per i propri fallimenti. Autocommiserazione. Compensazione di un senso di inferiorità (peraltro non necessariamente giustificato). Chi dice “io non mi sono laureato perché non avevo soldi” mente sapendo di mentire.
Spudoratamente bugiardo, intellettualmente disonesto.
Forse se non si hanno tante disponibilità economiche si deve rinunciare al prestigio, forse si deve rinunciare al MIT di Boston o ad Harvard (anche qui con cautela, perché dipende molto da caso a caso e ci sono virtuosi esempi che dimostrano l’esatto contrario), ma non allo studio di per sé, alla laurea “generica”. Forse è più difficile, soprattutto psicologicamente, affrontare un percorso universitario sereni del fatto di avere in ogni caso le spalle coperte per qualsiasi eventuale ritardo o incidente di percorso piuttosto che sapere che, qualora qualcosa vada storto, il tutto potrebbe essere compresso per via della mancanza di soldi. Ma non impossibile, anzi, per nulla impossibile.
Tanto meno in Italia – non voglio cadere nel banale confronto con altri paesi per due motivi: 1) sarebbe fuori tema; 2) non conosco così bene le altre realtà e sono abituato a non parlare di cose che non conosco – paese con tante storture e contraddizioni ma che mai, e dico mai, ha negato il diritto allo studio a chicchessia cittadino italiano e non.
Bene, Fabrizio e Ivano sono il perfetto esempio di ciò. Per questo voglio citarli come emblema, cito loro perché non trattandosi di me, nessuno potrà dirmi che non sono equo nel raccontare la loro storia, perché non ho nessun conflitto di interessi nel farlo, perché posso essere abbastanza distante e quindi imparziale (lo sarei a prescindere ma in questo caso con più credibilità per gli altri). Cito loro perché sono certo di quello che dico, per come li ho conosciuti, per come sono stato fra i migliori testimoni oculari del loro percorso e delle loro vite. Se ce l’hanno fatta loro, ce la potrebbe fare chiunque altro lo meriti quanto loro.
Entrambi si sono laureati sudando sette e più camicie, entrambi in atenei lontani dalla propria città e quindi con sulla carta ancor maggiori spese, Fabrizio addirittura anche fuori dalla propria regione. E lo hanno fatto da poveri, da persone normali, da “anonimi”. Ci sono riusciti facendosi il culo e dovendo rinunciare a tantissime cose in un’età dove, invece, le tentazioni e le possibilità di divertirsi sono altissime come in poche fasi della vita. Si sono divertiti anche loro, per carità, ma sempre nell’ambito delle loro possibilità e massimizzando ciò che avevano, senza lamentele o piagnistei. Con diversi pugni presi, mica è andato tutto sempre bene, con tante dure prove psicologiche da superare in un ambiente difficile e competitivo, dove a volte è difficile rialzarsi. Hanno ottenuto o provato ad ottenere tutti i benefici che potevano in base alla normativa di settore per riuscire a gravare il meno possibile sulla loro famiglia e ci sono riusciti, hanno partecipato a tutti i bandi per le borse di studio (alcune vinte, altre perse), hanno lavoricchiato per arrotondare, hanno cercato (e sono riusciti) ad essere sempre al pari con gli esami per poter rimanere all’interno di graduatorie che, inevitabilmente e giustamente, vengono formulate in base a criteri di merito classici quali il numero di esami sostenuti e la media dei voti (oltre che il reddito, per l’appunto). Percorsi universitari anche in questo caso non eclatanti, nessuna menzione o bacio accademico, ma pur sempre al passo e positivi, concreti.
Nel frattempo, i genitori? Hanno rinunciato a tutto quello che un marito ed una moglie possono rinunciare, dando un esempio pazzesco di senso del genitore e dimostrando a tutti che, sul serio, con i sacrifici oggi più che in passato anche un “povero” può arrivare ad ottenere qualcosa in termini di istruzione da questa balorda vita.
Oggi Fabrizio ed Ivano lavorano grazie a quel titolo di studio, Raimondo e Daniela possono finalmente riconcentrarsi su loro stessi e a distanza di oltre trent’anni dall’aver posato la prima pietra, stanno ancora cercando di finire la loro casa, di comprare qualche lampadario, qualche infisso, qualche mattonella, perché fino ad ora non lo hanno potuto fare proprio per permettere ai loro figli di riuscire ad ottenere quella piena cittadinanza che l’istruzione può darti.
Ringrazio questa splendida famiglia per dimostrare al mondo che la laurea non è necessariamente un assegno da firmare, ma (quasi) solo tanto sudore da versare. Grazie!
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Parole dure, ma sostanzialmente hai ragione. Il problema di una mancata laurea, specie al giorno d’oggi, non riguarda più tanto il denaro. Per quanto il sacrificio se non hai soldi è sicuramente maggiore da parte di chi studia e della famiglia. Semmai i problemi possono essere altri. Mancato supporto familiare, bassa autostima, paura nell’affrontare la vita. Tutte cose che sono connaturate alla gioventù sia dei padri che dei figli odierni. Da non laureato dovrei forse dissentire davanti al tuo discorso, ma lo comprendo e capisco che tu abbia più di una ragione. In bocca al lupo a te e a questi ragazzi.
Ti ringrazio.
Sono d’accordo con te sulla possibile (e frequente) somma di motivi.
Io ovviamente mi sono focalizzato su una e quindi ho dedicato tutto il ragionamento su questa motivazione, però come dici tu ci sono tanti altri fattori, spesso lontani da quelli finanziari, che incidono.
Grazie ancora.