IL CINECOLOGO – MANDERLAY
di Cinecologo
MANDERLAY (2005) Regia: Lars Von Trier Con: Bryce Dallas Howard, Willem Dafoe, Isaach De Bankolé, Danny Glover, Lauren Bacall
Ambientato negli Stati Uniti nei primi anni trenta, il film riprende la storia di Grace e del padre gangster, che alla fine del film precedente hanno bruciato la città di Dogville. Il loro viaggio li porta nell’Alabama, dove si fermano nella cittadina di Manderlay. Quando stanno per ripartire una donna nera esce dal cancello di una piantagione di cotone, dicendo che all’interno stanno per frustare un uomo accusato di aver rubato una bottiglia di vino. Grace scopre che nella tenuta vige ancora la schiavitù, nonostante siano passati 70 anni dalla sua abolizione in seguito alla Guerra di secessione. Grace allora decide di rimanere per garantire la liberazione degli schiavi, mentre il padre riparte, lasciandole però alcuni uomini, tra cui un avvocato. Poco dopo la padrona della casa muore, ma prima chiede a Grace di bruciare un quaderno contenente la “Legge di Ma’am”, che fra le altre cose comprende una categorizzazione degli schiavi secondo la loro personalità. I tentativi di Grace di far funzionare la neonata comunità democratica di Manderlay si infrangeranno contro la sua inettitudine e ancora una volta, come era successo a Dogville, la donna sarà costretta ad accettare il fallimento dei suoi buoni propositi e a fuggire per l’America. (fonte Wiki)
VALUTAZIONE CINECOLOGICA
In questo capolavoro del buon vecchio Lars non c’è solo, semplicisticamente, la “civilizzazione” – non richiesta – del “selvaggio” tipica dei processo di colonizzazione culturale (l’Ammmeriga viene subito in mente), c’è molto di più. C’è, giocoforza, il ruolo di superiorità e inferiorità che i partecipanti alla relazione dialettica assumono (anche loro malgrado) e che qui viene reso fattivamente dato che trattasi di schiavi e di una ricca ragazza (figlia di una famiglia non propriamente per bene). C’è il carattere esotico dell’altro-da-noi, verso cui la carità probabilmente poco ha a che fare col cuore ma è anzitutto un fatto intellettuale – e diviene pertanto emozione sincera, ma non vera: la differenza è enorme! C’è una riflessione sulla possibilità/impossibilità di comprendere l’alterità, e il grottesco della frustrazione che ne deriva quando se ne prenda consapevolezza: evento che potrebbe essere l’indizio di un’ingenuità di fondo che rimarca quella distanza incolmabile che nell’aiuto si vorrebbe negare? E c’è la costruzione teatrale della scenografia, che può essere letta come metafora di una farsa, di un finzione latente – anche se assolutamente verosimile – finzione che anche qualora non abbia nulla a che fare con le intenzione degli uomini, sta nel fatto in sé di una solo formale vicinanza tra realtà disomogenee e, forse, conciliabili a mero livello superficiale. Una delle opere filosoficamente più dense tra quelle di Trier e assolutamente attualissima. peccato sia stata così poco riflettuta dalla critica e dagli spettatori italiani e, per questo, troppo velocemente accantonata. Voto: 4/5
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