Antibiotici contro l'intolleranzaFrancesca Arca

RUBEN MUREDDU

di Francesca Arca

C’è una linea sottile, labile ma profonda che distingue l’Arte dall’artigianato artistico.  Segnarla è difficile. Non sono bastati secoli alla ricerca della giusta definizione per rendere visibile ed evidente quella piccola crepa impalpabile che separa due mondi e cambia l’artefice in artista.

Verbalizzare un concetto così multiforme che coinvolge l’intero spettro delle emozioni umane è un’impresa titanica e con grande probabilità senza risultato univoco. L’Arte esiste di per sé e oltrepassa il pensiero che prova a costringerla in un canone accademico, trascende le opere stesse e si fonde con la verità nella narrazione del mondo.

Ruben Mureddu è un uomo complesso che incarna sottilmente ognuna di queste caratteristiche e molto prima di essere un pittore è per certo un artista. «Posso parlare di me – dice quando lo incontriamo – perché è raccontandomi che parlo dei miei quadri.» Figlio di ristoratori, nato a Roma – città che continua a portare intimamente con sé – Ruben cresce in un luogo permeato di profonda bellezza: il promontorio di Capo Caccia che si erge sulla rada di Alghero.

«Mia madre è ogliastrina, mio padre è di Nulvi. Ci siamo traferiti a Capo Caccia quando avevo tre anni. È un luogo paradisiaco ma solitario per far crescere un bambino. Non sono andato all’asilo e disegnavo moltissimo. Non dico che ci sia stata una diretta conseguenza tra il luogo in cui sono cresciuto e la mia attitudine alla pittura ma certamente crescere in un posto isolato è stato un imprinting importante nel mio approccio con gli altri.»

Lo svago di un bambino si trasforma ben presto in piacere da coltivare nella pittura. «Iniziai a dipingere molto presto. Mi piaceva e piaceva anche agli altri, tanto che fino a poco tempo fa mi chiedevo se realmente fossi bravo in ciò che faccio. Da narcisista mi galvanizzavo quando mi dicevano che dipingevo molto bene, quindi non so dire quanto sia stata pura in me la spinta creativa o quanto in realtà il mio narcisimo sia stato spinto dalla gratificazione esterna. Sta di fatto che ho continuato.»

 

Gli anni del liceo rivelano la confusa consapevolezza di convivere con le nebbie del proprio animo che tarderanno ancora a diradarsi. «Mi sono iscritto all’Accademia a Firenze e dopo il primo anno chiesi il trasferimento a Sassari. Il mio tratto non era andato perduto. I professori mi riconoscevano del talento ma ero un anarchico, non stavo alle regole. Quando però portavo i pezzi per le revisioni nessuno aveva mai nulla da obiettare.»

L’indubbia capacità artistica e la sicurezza di poter ottenere il risultato voluto, aprono la strada ad un periodo fatto di viaggi, turbamenti e appannamenti. Il primo inverno in India, il trasferimento in Francia, la spola tra Lione, Parigi e Sassari per le revisioni e gli esami, la fine di una importante relazione e ancora l’Asia fino alla Cambogia, immergono Ruben in una babele emotiva che lo coglie in perenne lotta con se stesso.

«Ho discusso la mia tesi su Arte e Psichiatria perché era una cosa che mi appassionava molto. Credo che un artista debba confrontarsi con la sua parte oscura se vuole essere un onesto comunicatore. L’alternativa è offrire alla gente ciò che si aspetta rimanendo su un piano superficiale e io non posso farlo.» Un lungo percorso personale di conoscenza di sé e del proprio intimo sentire si dispiega davanti a Ruben, creando un’inaspettata prospettiva di crescita personale ed artistica.

«Ho avuto sempre un ego smisurato che mi ha dato il coraggio di non aver paura di esprimere me stesso. Ma la comunicazione attraverso l’arte – se è onesta – non implica necessariamente una gratificazione da parte dell’ascoltatore e quasi mai è un parto piacevole: mostri agli altri il tuo lato più oscuro e lo metti a disposizione di tutti. A volte mi capita di pensare che il fatto di aver trovato sempre riscontri positivi mi abbia impedito di sondare il mio vero rapporto con la creazione e trovare conferme in me stesso.»  

E se la gratificazione crea la sicurezza per esprimere se stessi in modo autentico, può essere però difficoltosa se valutata su altri piani relazionali. «Ho cercato conferme in maniera maniacale – continua Ruben – credo che un artista puro (e non sto affermando di esserlo) viva nutrendosi dell’altro. Si ciba non solo della conferma ma anche della risposta, qualsiasi essa sia. L’artista non vuole essere ignorato.»

Individualista, refrattario agli schemi imposti, Ruben Mureddu mal si piega al compromesso, rivendicando la propria ricerca nell’arte. «Qualsiasi circuito “artistico” ha bisogno di alleati ma io non posso esserlo se prima non riesco a capire chi sono. Quando finalmente ho avuto la mente pulita e ho messo a fuoco questo concetto ho ripreso a dipingere e mi sono riproposto l’idea di approfondire il discorso sulla commistione dell’arte con la psichiatria e su quanto la “non normalità” sia funzionale nella creazione. Una delle cose migliori che mi siano mai capitate è stato l’incontro con la terapeuta Elenia Nucci, che mi ha spinto a riattivare il mio percorso creativo e a specializzarmi in arte-terapia a Roma.»

Ruben descrive questa seconda fase della sua vita come una sorta di rinascita che lo vede di nuovo bambino davanti alla vita e proprio come un bambino procede e si evolve nella crescita. «Posso dire di essere nato due volte. Picasso diceva che si sa cosa si inizia ma non si mai come il lavoro si evolva e dove porti. Inizialmente dipingevo delle stanze dove si intravedevano delle presenze in una dimensione quasi amniotica. Ero io con la mia esigenza di uscire. Col tempo si cresce e bisogna esporsi, dandosi forma. Ho iniziato così una serie in cui rappresentavo gli animali, cioè il lato più istintivo. Lo capisco adesso ma non lo avevo definito consciamente mentre dipingevo.»

In questo processo di definizione è stato fondamentale l’apporto della critica d’arte Morgana Masu che ha spinto Ruben Mureddu verso un percorso sempre più fondato sull’autenticità del proprio lavoro. «Mi capita spesso di mostrare i miei quadri alla mente affilatissima di Morgana. Qualche tempo fa mi disse che il mio lavoro non poteva essere completo finché non avessi avuto il coraggio di espormi in prima persona e che probabilmente stavo cercando di nascondermi dietro la maschera degli animali che dipingevo. Facendo un percorso a ritroso ho capito che avevo esulato l’essere umano e ho creduto che fosse giusto riaccettarmi. Sto lavorando su me stesso e sul me stesso che sta crescendo. In questo momento non ho necessità di rappresentare idee supreme ma solo la mia evoluzione: una sorta di fase post-adolescenziale e le difficoltà edipiche che forse ne conseguono. È un lavoro profondo del quale non posso non tener conto.» La pittura come racconto di sé, come verità nell’esposizione del proprio mondo agli occhi di chi guarda, come crescita ed evoluzione, rendono il lavoro di Ruben Mureddu tanto complesso quanto semplice e diretto in un’alchimia di sensazioni reali e perturbanti.

«La realtà è semplice e si basa su equilibri fatti di pochi elementi ma ci siamo snaturati talmente tanto che ritrovare quegli elementi diventa sempre più difficile. Se sono arrivato ad un buon livello di comunicazione artistica non posso che far vedere ciò che sono nel mio tempo, senza farmi contaminare da altro. È necessario attuare un processo di unicizzazione e fare in modo che l’arte sia sempre il posto dell’inaspettato. Ho fatto anche dei murales, sono state belle esperienze ma non è una cosa che amo fare proprio perché  il murales limita la fase creativa ad un momento circoscritto, che è quello della progettazione, e la cosa mi sta stretta.»

Ruben Mureddu è un uomo selettivo e come artista seleziona anche ciò che rappresenta nei suoi dipinti. Ci vuole un livello di empatia superiore per entrare nel suo mondo e comprendere del tutto ciò che si palesa invece senza inutili manierismi sulla tela. Capire l’arte di Ruben Mureddu vuol dire fare uno sforzo di pensiero, perché le storie più importanti sono sempre quelle che si leggono tra le righe.

(Questo articolo è stato pubblicato, in una versione riveduta e corretta, sul bimestrale ANTAS, anno III, numero 14, dicembre 2016)

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