DI CONNESSI SENSI
Di Sonia Melis
“Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell’unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po’ come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c’erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d’entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l’essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.
Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. “lo credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri.” Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d’ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un’apertura – quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell’ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra. Si abbracciavano, si stringevano l’un l’altra, desiderando null’altro che di formare un solo essere é […]“
Anche una delle pagine più belle dedicate all’amore non basta a definirlo, non più di quanto abbiano fatto la biologia, le scienze mediche, la sociologia, la psicologia, disturbando teorie che vanno dall’attaccamento, con i suoi modelli operativi, ai neuroni a specchio, passando dalla chimica ma senza approdare ad una definizione che lo imbrigli e ne annulli il mistero che l’arte, in tutte le sue declinazioni, al contrario, si limita a celebrare.
Senza sbagliare e continuando a dire poco, potremmo definirlo, genericamente, un desiderio più che un bisogno, un anelito, una tensione. “L’amore è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole”, direbbe Jacques Lacan, filosofo e psicanalista che ha fatto sua la lezioni di Freud e per molti, suo erede. Meno oscura di quanto possa sembrare di primo acchito, la concezione lacaniana, non punta sull’avere ma sulla mancanza, ovvero la ricerca delle parti di sé mancanti nell’altro, di quelle parti indisponibili e che saremmo disposti a cercare nell’amato, che si traduce in un darsi come possibilità, coraggioso lancio senza paracadute, e accettazione dell’inevitabile turbamento che ne deriverebbe: nessuna esperienza ci lascia indifferenti e uguali, meno che mai un profondo e autentico incontro con l’altro.
E questo, per quanto rischioso, sarebbe l’amore quando va bene, resterebbero da indagare quello non corrisposto (un investimento a vuoto che due strisce di Lucy van Pelt, col suo Schroeder, senza nulla togliere al giovane Werther, anzi, renderebbero meglio di tante parole), e quello al tempo dei social e delle chat. Un fenomeno che investe molte più persone di quante non si pensi, di età, provenienza, estrazione sociale e culturale diverse, per ragioni tra le più disparate. Ed è curioso come anche per questa fattispecie, anche se con significato diverso, torni l’elemento della mancanza, da intendersi non solo come ricerca delle parti di sé mancanti, unitamente a quella disponibilità al turbamento, di cui si è detto, ma quale assenza di fisicità, di corpo, e forse persino di identità che, pure, crea legami. Può quindi una relazione virtuale, che mette in relazione e crea un legame, implicando la desiderabilità e lo stesso rischio di turbamento, oltre che la disponibilità a conoscere le parti indisponibili di sé, anche sé, in mancanza della fisicità, ma conservando il concetto di desiderabile, assurgere a relazione d’amore o può escludersi con un “Ma se nemmeno lo/la conosci?”
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