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BUROCRAZIA E PAROLE MAGICHE

di sonia melis

Otto sportelli, tre impiegati operativi, ed uno spaesato che fa la spola tra la sua postazione e il retro dell’ufficio, senza fretta, e senza ansia procede anche la chiamata del numero successivo ad ogni operazione terminata, un ritmo messicano che giustifica la cifra esorbitante del numeretto che regola la fila.
Arriva il mio turno, conquisto lo sportello e presento proprio all’impiegata che speravo non mi capitasse in sorte – già testata, scoprirò che è seriale – il modulo compilato con una penna celeste, non senza remore, ma avevo solo quella e molta fretta. Il corpo parla e, senza disturbare le teorie del caso, avverto che si sta per presentare una rogna, confermata dal « No, vada lì e ne compili un altro, questo non va bene, scritti con la penna verde non ne ho mai visti », pronunciato dall’impiegata che si parla tra i denti, con fare imperturbabile quanto indisponente.

Confidando nella funzione dell’ironia – si dice faciliti il passaggio messaggi altrimenti insopportabili – candida, rispondo: « Ma non è verde, è celeste!» Nulla da fare, nemmeno un sorriso. La donna a metà, rivolgendosi all’altro mezzo busto che le siede accanto, come a parlare a nuora perché suocera intenda, domanda «Tu ne hai mai visto?».  La collega, non so se per istinto corporativo o autenticamente scompensata dalla novità che campeggia dentro il modulo triste, come solo la carta riciclata sa essere, pronuncia un indolente « No », la risposta ad una domanda retorica e scontata. Quindi inizio a contare e a dirmi mentalmente improperi impronunciabili da camionista ucraino in coda al Brennero ma con con estrema cortesia, domando: « …ed è scritto in un regolamento o non si può perché non ne ha mai visto uno?».

Finalmente mi guarda e ribadisce che tutti usano la penna nera o blu, che vale a farmi capire che non sarò io, irriverente, a sovvertire la consuetudine, con un inchiostro di due toni in meno. Non resterebbe che cedere all’ottusità, pagare a prezzo di servizio anche la cafoneria ingiustificata e procurarmi una penna di quelle ammesse e rimettermi in coda. E invece no: in assenza di un regolamento che osti, nella certezza di un terminale indifferente a quisquilie cromatiche, per il senso di colpa per l’accrescersi della fila alle mie spalle, la fretta di andarmene e, quell’arroganza immotivata, e quel senso di disagio per l’ennesimo episodio subito, assumendo pose assurde davanti a un vetro – per sentire bisogna orientare l’orecchio nella feritoia in basso – pronuncio un sommesso « Scusi, ma il direttore c’è? »

Poche parole ma efficaci che la tramutano nell’addetta ideale, che lascia la valigia delle sue frustrazioni a casa, competente, gentile, disponibile, capace di dare indicazioni chiare, che non perderebbe né farebbe perdere tempo, solo per il gusto di piantare un bastone tra le ruote del buon umore altrui, e che ti immagini naturalmente disponibile, anche con gli utenti più indifesi, per ignoranza o vecchiaia, quasi sempre incerti, sordi e stanchi. Ma tutto è bene quel che finisce bene, e con la penna ricordate di portare un “ma il direttore c’è” ?

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