VIAGGIO NEL TEMPO
di maurizio casu
Entrammo in quella stanza e qualcosa cambiò. L’aria, i colori, i suoni, il tempo. Tutto cambiò, d’improvviso, radicalmente.
La prima ad accorgersene fu la bambina, “abbiamo viaggiato nel tempo” proferì solenne.
Nessuno fece caso alle parole pronunciate.
Il pavimento era parquet di olivastro, sembrava quasi di sentirne il profumo. Le pareti decorate con carta da parati dai colori rosa pastello. Le volte affrescate con motivi floreali su un tenue colore turchese. Un divanetto e delle sedie in legno con cuscini imbottiti, entrambe di color turchese a richiamare le volte. In fondo alla stanza, proprio di fronte alla porta dalla quale eravamo entrati, apparve una luce intensa, abbagliandoci per lunghissimi secondi.
Forse secoli.
Una volta abituati gli occhi, riuscimmo a scorgere, contornato da bei tendaggi un balconcino ricolmo di fiori.
Sui muri erano appesi in bella mostra degli attestati con una serie di nomi e titoli: “tiratore scelto da guerra”, “attestato rilasciato…” e la data, quella data, quell’anno.
1848.
Un pianoforte, uno specchio, un tavolino con una teiera e delle tazze.Sembrava davvero essere piombati nel XIX secolo.
“Abbiamo viaggiato nel tempo” aveva detto la bambina.
Ma chi era? Chi erano le persone che stavano con me?
Non ricordo.
Percorrevo il perimetro della stanza quando mi resi conto di essere rimasto solo. La porta di ingresso ora era chiusa dall’esterno, accostai l’orecchio e mi parve di udire il vociare della bambina “abbiamo viaggiato nel tempo, nel tempo…” sempre più lontano. Ora il pavimento aveva acquistato una discreta pendenza ed il parquet striature color ciliegio. La luce entrava dal balconcino sempre più flebile con ombre che si allungavano fino a metà sala.
Pensai di dare uno sguardo all’esterno. Raggiunsi il terrazzo e mi sporsi facendo attenzione a non toccare niente.
Non toccare i fiori, pensavo.
Non calpestare le ombre.
Quello che vidi mi lasciò stupito ed affascinato.
Una chiesa si stagliava alta a qualche metro da me, guardai verso il basso e capii di essere al secondo piano di un palazzo, al centro di quello che pareva un corso in pavè. Passò una carrozza e rimasi attonito a fissare il cocchiere, vestito di nero con una bombetta a coprire la pelata. Il cavallo sbuffò, lui sollevò lo sguardo e mi fissò.
Mi ritrassi, confuso, inquieto.
La pendenza del pavimento era aumentata come se volesse farmi scivolare verso la parete opposta.
Una porticina di legno aperta mi aspettava e ad ogni battito di ciglia diventava sempre più piccola.
Non avevo altra scelta, dovevo andare di mia spontanea volontà o la stanza si sarebbe inclinata fino a farmi cadere dentro il pertugio.
Una stanzetta, spartana. Una sorta di cabina armadio.
Grucce di legno e cappelli da donna posati su una cassapanca.
La pendenza era svanita e il nuovo ambiente puzzava di muffa. Nessun decoro, il muro bianco e la volta a crociera.
Oramai la luce a disposizione era molto fioca, poggiai una mano sul muro e proseguii in avanti verso un’apertura ad arco che intravedevo a qualche metro.
Arrivai sull’uscio e rimasi impietrito.
Al centro di un’ampia camera da letto, dormiva su un baldacchino una donna.
La penombra rendeva indistinguibile il colore dei muri, scorgevo le sagome degli armadi, come immaginavo che quella fosse una donna. Forse addormentata. Forse morta.
Fissavo una mattonella in maiolica, l’unica cosa che oramai riuscivo a vedere chiaramente.
In un’altra circostanza avrei apprezzato la decorazione liberty, ma ora mi trovavo in una stanza in penombra con una donna morta.
Morta.
Nessun respiro, niente.
“Abbiamo viaggiato nel tempo”
Dovevo andare via da li, unire i pensieri come un puzzle, analizzare la situazione.
Mi spinsi verso il muro, tenendomi ben lontano dal cadavere… l’odore. Nessun odore. I pensieri, unirli come tasselli. Fermarsi e riflettere.
Invece camminavo e il muro dietro di me franava, sentivo pezzi di intonaco staccarsi al contatto con le mani madide di sudore.
Caldo.
Camminavo e il calore aumentava, le mattonelle ora salivano. Un corridoio stretto. Andai a sbattere contro un pannello, spinsi con forza, niente. Buio pesto.
Cercai di calmarmi e portate le mani in avanti cominciai a perlustrare la superficie. Legno, ruvido, vecchio. Una maniglia.
Aperta.
Entrai nel nuovo ambiente e mi preoccupai di chiudere la porta alle mie spalle. I pensieri si affollavano. Una donna morta, mi accuseranno per omicidio. Una donna viva, mi accuseranno di essere un ladro, un maniaco… mi faranno a pezzetti.
Andai a sbattere contro una stufa di ghisa, mi ritrassi per non rimanere scottato. Era fredda.
Caldo, avevo un caldo tremendo.
Un soffice bagliore lunare penetrava da vetri opachi. Un uomo in uniforme militare sedeva ad una tavola. Immobile. Nel vederlo soffocai un urlo in gola, corsi verso la finestra e afferrai la maniglia. Bloccata. Sentivo il suo respiro, era dietro di me, sempre più vicino.
Non parlava, “perché non parli?” urlavo nella mia mente, “perché non parli!?” Iniziai a colpire il vetro in preda alla disperazione, era dietro di me. Riprovai con la maniglia in senso orario, in senso antiorario, spingendo, tirando.
Alla fine qualcosa cedette e la finestra si spalancò.
Un secondo di silenzio.
La stanza si illuminò a giorno e una sirena d’allarme fece vibrare vorticosamente l’aria. D’istinto sollevai le mani in segno di resa e tremante cominciai a voltarmi. La stufa, un orologio a pendolo, una vetrina con zuppiera e ceramiche in bella mostra. Mi voltavo piano. I muri rosa pallido con finiture azzurre a contorno di motivi floreali.
Il tavolo, il cartello con la scritta sala da pranzo e un manichino in uniforme.Percorsi a ritroso le stanze.
Baldacchino, cartello, donna manichino, cartello, piccolo studio, cartello, corridoio, cartello, salotto, balconcino.
Le pareti decorate con carta da parati dai colori rosa pastello. Le volte affrescate con motivi floreali su un tenue colore turchese. Un pianoforte, uno specchio, un tavolino con una teiera e delle tazze.
Sui muri erano appesi in bella mostra degli attestati con una serie di nomi e titoli: “tiratore scelto da guerra”, “attestato rilasciato…” e il cartello, quel cartello: “Casa Museo – Autentico appartamento signorile del XIX secolo”.
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