FEMMINISTE E INTOLLERANZE
di Marina Garau Chessa
Gwen: “Margaret, siete diventata una suffragetta?”
Margaret: “Ecco; Gwen, credo che le donne dovrebbero avere pari diritti nella società”
Helen: “Quindi siete una suffragetta”Eva: “No, Margaret non potrà mai essere una suffragetta. Sono tutte mascoline, zitelle piatte con il sedere grosso, no? Scusate Gwen!
Gwen: “Ho letto che hanno teste malformate e zampe palmate.”
Ogni volta che sento lo stereotipo legato alle femministe, che prevede un gruppo di donne isteriche, sporche e pelose in perenne lotta contro il sesso opposto, mi viene in mente questo dialogo di “Up the women”. Va da sé che lo stereotipo in questione non riscuote molto successo in termini di corteggiamento.
Questo stereotipo nasce evidentemente da parte di chi non ha capito che il femminismo è nato per combattere il sessismo e non gli uomini, in un periodo storico in cui le donne non godevano minimamente della parità dei diritti. E per quanto possa sembrare strano, c’è ancora bisogno delle femministe visto che si è ancora lontani dalla vera parità. Certo, non si bruciano più i reggiseni in piazza (anche perché, mannaggia a Mary Phelps Jacob, alcuni costano più di 30€), ma si lotta per ottenere la parità di compenso per le stesse mansioni e il diritto di mantenere il posto di lavoro se si va in maternità.
Ora, l’equazione parità di diritti = mancata cura di sé non è biunivoca: una donna può chiedere la parità dei diritti e prendersi cura di sé. Il guaio è che, mentre ci sono molti uomini conversano serenamente con una donna senza pensare di portarsela a letto e non prendono qualsiasi gesto come un’avance, alcuni ritengono che qualsiasi comportamento femminile ruoti intorno al loro attributo caratterizzante. Ma poiché quest’ultimo non ha preso il nome di “Mediolanum”, per citare un noto spot televisivo, è evidente che non è così: femminismo è anche la libertà di disporre liberamente del proprio corpo. Il concetto va oltre la frase “io sono mia”, riguarda il fatto che ognuno di noi è una persona che abita all’interno di un corpo e ognuno, a casa propria, fa quello che vuole. Se la mia casa non incontra il gusto altrui, l’interessato è libero di voltarsi dall’altra parte.
La fortuna delle femministe sono gli uomini “femministi”, che le sostengono e che nei decenni hanno contribuito ad ottenere dei risultati. A tutti gli altri, resta lo stereotipo.
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Ci sarebbe molto da dire tra femminismo e femminismo… quello che vissi io ai primi degli anni ’70 era un femminismo “duro”, si accendevano discussioni anche aspre, ma mai una femminista avrebbe rivendicato un ruolo maschile, solo cosi’ per “par condicio”, mai avrebbe pensato poniamo di andare a fare la “marine” o la broker, mai avrebbe accettato l’idea dello sfruttamento capitalistico etc… quel femminismo e’ finito, per lo piu’ sconfitto… ora le le donne lottano , giustamente, per rivendicare pari diritti e stessi ruoli, magari, perche’ no, quello di capo mafia… cioe’ in altri termini hanno sussunto su di loro il punto di vista fallocratico, diventando piu’ maschi dei maschi e in questo senso anche piu’ capaci di un maschio, per dimostrare che la differenza sessuale non vuol dire minori capacita… viene meno il concetto di trasformazione del mondo e il capitale astrattti e informatizzato se ne frega se chi lo fa funzionare sia un uomo o una donna… insomma si e’ perso il portato rivoluzionario del femminismo a favore di un rivendicazionismo, insisto assolutamente legittimo, ma che in nulla cambia l’assetto sociale e la forma economica cosi’ come si sono organizzate negli ultimi decenni di globalizzazione.
Grazie, Massimiliano. Sono certa che Marina sarà felice di leggere il tuo commento! (Francesca)
Grazie Massimiliano, è un commento che offre diversi spunti di riflessione. Io credo che il problema nasca un po’ dalla “sessualizzazione” del lavoro perché, in linea di massima, i lavori tradizionalmente considerati femminili sono quelli dedicati alla casa ed alla persona, dei quali tutti abbiamo bisogno ma chi li compie serve chi li usa. In questo senso, un lavoro “da uomo” nobilita la donna, mentre un lavoro “da donna” degrada l’uomo. Socialmente, quindi, è più facile accettare una donna camionista rispetto ad un uomo che ricama (a dimostrazione che il sessismo danneggia anche gli uomini). Molte donne, secondo me, si sono “mascolinizzate”, nel tentativo di essere prese sul serio. Andrebbe superato il legame “lavoro- sessualità”, arrivando a considerarlo una semplice realizzazione delle inclinazioni dell’individuo, che lo svolge senza perdere una parte di sè per adeguarsi a dei modelli di comportamento. Abbiamo ancora molta strada da fare, temo. A presto.